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Chlorine

by Francesca Manfredi
Translated from Italian by Lucy Rand

Cloro

Lidia e Alberto avevano deciso di pranzare in giardino, quella domenica.

Si erano trasferiti da poco. Una zona residenziale nuova, appena fuori città: quattro palazzine di tre piani, tutte uguali, l’ultima ancora da terminare. Gli appartamenti al piano terra davano su un giardino privato, come aveva tenuto a sottolineare l’agente immobiliare. Poco più che un’aiuola, ripeteva Alberto, e con gli inquilini dei piani di sopra che potevano affacciarsi e farsi gli affari loro. A Lidia però quell’aiuola piaceva, e una sera, mentre metteva a letto le figlie, aveva promesso loro che, se avessero convinto il padre a scegliere quella casa, avrebbero avuto una piscina gonfiabile per l’estate. Le bambine avevano insistito così tanto che alla fine lui aveva ceduto.

Il giorno dopo il trasloco, Alberto aveva fatto un giro per l’isolato. La maggior parte dei giardini erano in ordine e curati: l’erba tagliata di fresco, fiori e arbusti piantati qua e là. In alcuni c’erano dei giocattoli per bambini: un triciclo, un piccolo scivolo di plastica, un’altalena. Altri erano più trascurati; l’erba tendeva al paglierino e arrivava fino alle caviglie. Quasi tutti, in ogni caso, avevano un barbecue.

Quella sera, dopo che le bambine erano andate a letto, Alberto aveva detto a Lidia di voler comprare un barbecue. Lidia si era stupita, perché Alberto non era tipo da queste cose. Era pigro, sapeva a malapena bollire un uovo e odiava trascorrere troppo tempo all’aria aperta, soprattutto d’estate. Lei aveva sorriso e, divertita, gli aveva chiesto come gli fosse venuta quell’idea.

“Be’, e che ne so?” aveva detto lui. “Non c’è un perché per ogni cosa.”

La TV era accesa su un canale che trasmetteva notizie ventiquattr’ore su ventiquattro. Alberto aveva aggrottato la fronte ed era tornato a guardare lo schermo. Lidia si era alzata dal divano ed era andata in cucina; poi si era affacciata alla porta, con un bicchiere in mano.

“Potremmo provarlo il prossimo fine settimana. Fare una grigliata.”

“Perché no?” aveva borbottato Alberto.

“Potremmo anche comprare una di quelle piscine gonfiabili. Per le bambine, intendo. A loro piacerebbe. Fa già così caldo.”

Alberto aveva aggrottato la fronte di nuovo. “Vediamo,” aveva detto, senza spostare lo sguardo dallo schermo.

Il giorno dopo, mentre erano nel negozio di articoli per il giardino, Lidia era tornata sull’argomento.

“Non se ne parla,” aveva detto Alberto. “Già è piccolo, ci manca solo una piscina.” Aveva riabbassato il coperchio del barbecue che aveva davanti, facendo un po’ troppo rumore.

“Le bambine devono imparare ad accontentarsi,” aveva aggiunto, guardandola fisso negli occhi. “È una cosa che prima impari, meglio è.”

Erano usciti dal negozio con il barbecue, una confezione di carbonella e un ombrellone da giardino; li avevano sistemati sui sedili posteriori. A Lidia sembrava di sentire l’odore della carbonella anche attraverso il sacco. Le dava un senso di nausea. Aveva abbassato il finestrino—prima a metà, poi quasi completamente—ed era rimasta così, respirando l’aria che le correva sul viso, fino a casa.

▴▴▴

Quella domenica faceva molto caldo. Alberto era impaziente, e aveva cominciato a girare attorno al barbecue dalla mattina, aspettando il momento giusto per accenderlo. Le bambine giocavano sul prato. Ilaria, che di lì a un paio di mesi avrebbe compiuto nove anni, faceva pallavolo da quando aveva iniziato le elementari, e cercava di insegnare alla sorellina a ricevere la palla. Lidia non aveva mai capito da chi avesse preso la passione per quello sport. Odiava la pallavolo dai tempi in cui era stata costretta a praticarla, a scuola. L’attività fisica aveva sempre coinciso col nuoto, per lei. Aveva provato a iscrivere entrambe le figlie a qualche corso in piscina, ma non c’era stato verso di farle continuare. Per loro, acqua significava soltanto gioco.

“Unisci le braccia come faccio io,” sentiva ripetere Ilaria. “Non molli così. Rigide. Poi metti le mani in questo modo. Questo è il bagher.”

Alice aveva tre anni di meno, ed era ancora nella fase in cui, quando aveva capito come funzionava una cosa o l’aveva provata per un po’, si stancava e voleva passare ad altro. Poco dopo era corsa in casa e aveva ricominciato a supplicare sua madre perché comprasse la piscina gonfiabile, cosa che faceva sempre più spesso negli ultimi giorni. Lidia era in cucina, concentrata a preparare le verdure per il pinzimonio e le tartine per l’antipasto, e il caldo la infastidiva così tanto che le pareva di non riuscire a respirare. Quando Alice aveva aggiunto, con voce lamentosa: “Me l’avevi promesso,” si era voltata di scatto e le aveva urlato di farla finita, altrimenti la piscina non l’avrebbe mai avuta. La bambina si era talmente spaventata che non aveva più detto una parola ed era corsa in camera sua. Lidia si era rimessa a preparare gli antipasti. Più di una volta aveva sperato che Alice tornasse alla carica. Almeno, avrebbe avuto una scusa valida.

Quando la grigliata fu pronta, Alice era ancora in camera. Lidia andò a chiamarla e la trovò seduta sul letto.

“Scusa se ho alzato la voce,” le disse. “Sei ancora arrabbiata?”

Alice la guardò per un attimo, le labbra imbronciate. Riabbassò lo sguardo e fece di no con la testa.

“Se fai la brava, domani andiamo in piscina,” disse Lidia. “Quella grande, all’aperto. Ti va?”

Alice alzò di nuovo lo sguardo, e la fissò senza dire una parola. Lidia si sforzò di sorridere. Avrebbe voluto aggiungere qualcosa, ma non le veniva niente da dire. Finalmente Alice si alzò e le andò vicino. “Vedrai che lo convinciamo papà,” sussurrò Lidia.

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Dopo mangiato, le bambine si alzarono da tavola e tornarono a giocare. La grigliata non era venuta molto bene: la carne si era seccata troppo, e alcuni pezzi non erano ben cotti. Ma Alberto aveva fatto finta di niente, e Lidia si era adeguata. Presero il caffè e rimasero seduti per un po’, osservando le bambine. Poi lui rientrò, accese la televisione e si sedette sul divano. Lei sparecchiò e andò in cucina, a riordinare.

Dal giardino arrivavano le voci delle bambine. Lidia prese il detersivo per i piatti e ne versò qualche goccia nel lavello, che lentamente iniziava a riempirsi di acqua calda. Osservò la schiuma che si formava. Il caldo e il cibo l’avevano intorpidita; sentiva le palpebre pesanti e la vista annebbiata. Avrebbe potuto addormentarsi in quella posizione, se solo avesse abbassato le palpebre. Scosse la testa e chiuse il rubinetto.

Sulle prime non ci fece caso; ma poi, quando la televisione fece silenzio per qualche istante, notò una voce diversa. Era la voce di un uomo che arrivava da lì accanto. Lidia andò verso la portafinestra che dava sul cortile davanti, un piccolo lembo di terreno che divideva il loro giardino dalla strada. Ilaria era seduta sull’erba; Alice, invece, stava in piedi, accanto alla siepe di bosso che delimitava il giardino. Davanti ad Alice, oltre la siepe, c’era un uomo. Teneva le mani in tasca e il collo leggermente allungato verso la bambina. Lidia non riusciva a capire cosa stesse dicendo, ma doveva essere qualcosa che aveva catturato l’attenzione di sua figlia, perché sembrava ascoltarlo incantata, immobile davanti a lui, come se lo conoscesse da una vita.

Lidia invece era sicura di non averlo mai visto da quelle parti. Era un uomo tarchiato, sulla cinquantina. I capelli radi e spettinati, come di uno appena alzato dal letto. Indossava una t-shirt di un azzurro sbiadito, che portava il disegno di un castoro con un caschetto di sicurezza sulla testa, e, più in basso, una scritta che recitava: “Il PERICOLO non è il mio MESTIERE,” con le parole pericolo e mestiere scritte in stampatello e il non sottolineato. Lidia notò che, mentre parlava, muoveva la bocca in un modo strano. A tratti la spalancava di colpo, rimaneva così per qualche istante e poi torceva la mandibola in modo innaturale, spostandola a destra e sinistra, avanti e indietro, come se stesse masticando un boccone estremamente stopposo. Sembrava che alcune parole fossero troppo grandi per la sua bocca e che, per farle uscire, dovesse prima sminuzzarle coi denti.

Solo quando lo ebbe davanti capì che si era preoccupata più del dovuto. L’espressione dell’uomo era la stessa che aveva visto sul viso di Alice poco prima, quando aveva alzato la voce con lei. L’espressione di un bambino che viene rimproverato, ma che non riesce a comprenderne il motivo.

Era uscita di casa così di fretta che non si era resa conto di avere ancora in mano la spugna per i piatti.

▴▴▴

Il giardino si trovava nella palazzina a fianco. Era appena qualche metro più grande di quello di Lidia e Alberto, ma così pieno di oggetti da sembrare un parco giochi. C’erano uno scivolo di plastica, un’altalena, una tenda e un piccolo tappeto elastico, oltre a due tricicli e a una quantità esagerata di giocattoli sparsi qua e là. E poi c’era la piscina. Un cerchio di plastica azzurra e gialla, più grande di quanto Lidia si sarebbe aspettata, proprio in mezzo al giardino. Dentro, tre bambini, tutti maschi, giocavano a spruzzarsi e a spingersi sott’acqua, facendo così tanto baccano che Lidia si domandò come avesse fatto a non accorgersene prima.

La proprietaria della casa si chiamava Anna, ed era una donna di qualche anno più vecchia di Lidia, o almeno così le era sembrato. Era grassoccia e aveva i capelli corti, tinti di un rosso prugna. L’aveva vista arrivare di corsa dal vialetto, poco prima, muovendo lo sguardo qua e là come se stesse cercando qualcosa. Quando aveva notato l’uomo accanto alla siepe si era precipitata verso di lui, agitando le mani in direzione di Lidia.

“È mio fratello Giorgio,” aveva spiegato, con il fiatone. “Abbiamo altri ospiti e l’abbiamo perso di vista un attimo. Striscia via come un serpente, quando vuole.”

Aveva preso con forza la sua mano e gli aveva rivolto un’occhiataccia, di cui lui, chino a fissarsi la punta dei piedi, non si era accorto. “È che non siamo abituati ad averlo con noi,” aveva aggiunto. “Spero non abbia dato fastidio.”

“Non si preoccupi,” aveva detto Lidia con voce roca, mentre tentava di nascondere la spugna insaponata dietro una gamba.

“Posso invitarvi a bere qualcosa da noi, per farmi perdonare?” aveva proposto la donna. Aveva aggiunto di avere comprato da poco una piscina gonfiabile. “È da stamattina che mio figlio e i miei nipoti sono a mollo.”

Alice rimase ad ammirare la piscina per qualche istante, gli occhi spalancati, prima di voltarsi verso sua madre e domandarle, con voce acuta: “Posso?” Doveva sembrarle così grande, pensò Lidia. Sorrise e l’aiutò a togliersi la maglietta e i pantaloncini; poi la bambina corse verso l’acqua.

“Il più piccolo è il mio,” disse Anna, avvicinandosi a Lidia. “Tommaso. Ha quattro anni. Gli altri due sono i figli di mia sorella.”

Sotto il portico, Alberto si era seduto al tavolo da pranzo, ancora mezzo apparecchiato, insieme al marito di Anna, alla sorella maggiore di lei e a suo marito. Bevevano birra tenuta al fresco in una ghiacciaia portatile, sotto al tavolo. Li aveva raggiunti anche Ilaria, che aveva deciso di essere troppo grande per giocare con gli altri bambini. Giorgio sedeva sull’altro lato del portico e giocherellava con una pallina da ping-pong. Se la passava da una mano all’altra, osservandola come se volesse entrarci dentro. Di tanto in tanto si interrompeva; si voltava verso Alberto e gli altri, cercando di capire di cosa stessero parlando, guardava Lidia, in piedi davanti alla piscina, osservava per qualche istante i bambini, poi tornava alla sua pallina.

“Dove stavate, prima?” domandò Anna.

“In città,” disse Lidia. “A due passi dal centro. Ho sempre vissuto lì. E anche Alberto. È la prima volta che ci allontaniamo.”

La piscina sembrava un calderone, adesso. Alice saltellava qua e là, mandando spruzzi dappertutto, mentre i tre bambini, che parevano non essersi nemmeno accorti della sua presenza, continuavano a immergersi e a risalire, a spingersi l’un l’altro.

“E come ti sembra?” fece Anna, a bassa voce. Lidia si voltò verso di lei e la guardò. Anna le sorrise, e Lidia ebbe per un attimo l’impressione di conoscerla da tempo. Il modo in cui la sua bocca si spostava leggermente da un lato quando sorrideva, gli occhi, grandi e amichevoli ma con una nota di tristezza da qualche parte, perfino la sua voce, che le faceva pensare al rumore dei passi sulla ghiaia; tutto le ricordava una persona che aveva conosciuto tempo prima. Una persona alla quale era stata legata, in un periodo fra l’infanzia e l’adolescenza, ma della quale non riusciva a ricordare il nome.

“Così,” le disse. “All’inizio non è facile da dire.”

“Lo so,” disse Anna. “Ho fatto tanti di quei traslochi, in vita mia, che ormai nemmeno ci faccio caso. Però me lo ricordo com’era le prime volte.”

Lidia annuì, e tornò a guardare la piscina.

“Quando avevo dieci anni,” disse Anna, “mio padre si era messo in testa di allenarmi per le immersioni in apnea. Mi portava ogni giorno alla piscina comunale.” Teneva la voce bassa, tanto che Lidia faticava a capire tutte le parole. “All’inizio, per renderlo più divertente, faceva cadere qualche oggetto sul fondo—gli occhialini, dei piccoli giocattoli che portava da casa—ricoprendo l’intera corsia della vasca da venticinque. Io prendevo una bella boccata d’aria e mi tuffavo a prenderli. Nuotavo a pochi centimetri dal fondo, più veloce che potevo, e non risalivo finché non li avevo raccolti tutti. Mi piaceva. Mi immaginavo un mondo sommerso, pieno di tesori, che solo io sarei stata in grado di trovare.”

Mentre parlava, guardava fisso davanti a sé. Quella nota malinconica nel suo viso sembrava essersi fatta più evidente.

“Quando ha deciso che ero pronta,” continuò, “mi ha portata al mare. Ero così emozionata che la sera prima non sono riuscita a dormire. Sono stata capace di arrivare solo a tre metri. In mare non era come in piscina. L’acqua era gelida, e man mano che scendevo si faceva sempre più buio, e sentivo le orecchie scoppiare dalla pressione. Era qualcosa a cui non ero preparata.”

Lidia la osservava, immobile. “Non so perché te l’ho raccontato,” rise Anna.

Solo in quel momento si accorsero che Giorgio era dietro di loro. Le guardava senza dire una parola, con aria impaurita. Anna gli mise una mano sulla spalla, attirandolo verso di loro. Lidia si sforzò di sorridergli. Aveva ancora in mano la pallina da ping-pong; la teneva stretta in pugno, come se avesse paura che qualcuno potesse portargliela via.

“È venuto a stare con noi per qualche giorno,” spiegò Anna. “Di solito sta coi miei, ma ora sono al mare. Vero, fifone?”

Giorgio si voltò verso Anna e annuì, poi riprese a guardare verso la piscina.

“Adora l’acqua, ma ha paura di entrarci,” disse Anna. “Dev’essere di famiglia.”

“Per me invece è il contrario,” disse Lidia. Strinse le braccia all’altezza del ventre, tenendosi i gomiti con le mani. “Nuoto da quando ero piccola. È diventato qualcosa di automatico, ormai. Mi manca se non vado, ma quando sono lì capisco di non provare più la stessa sensazione che provavo una volta. Faccio le mie vasche e basta, senza pensarci troppo. A volte mi dà fastidio anche l’odore del cloro. Un tempo lo trovavo piacevole.”

Anna sorrise. “Anche a me è sempre piaciuto quell’odore. Sa di pulito. Anche se a volte mi fa pizzicare il naso.”

Lidia annuì, guardandola negli occhi. In quel momento il marito di Anna, dalla veranda, la chiamò. Aveva una voce potente e profonda, da baritono; riusciva a farsi sentire anche senza urlare. Disse che la cercavano al telefono. Anna si scusò e si incamminò velocemente verso casa.

Rimasero solo Lidia e Giorgio. Lei lo osservò: la schiena ricurva, l’addome sporgente, le mani piccole. Teneva le gambe leggermente divaricate, come se sentisse la necessità di puntellarsi sul terreno, altrimenti avrebbe perso l’equilibrio e sarebbe caduto.

“E tu che dici?” chiese Lidia, per rompere il ghiaccio. “A te piace l’odore del cloro?”

Giorgio continuava a osservare la piscina, la testa leggermente reclinata da un lato. “Il cloro fa male alla pelle,” disse d’un tratto. “Ma alla tua no. La tua è immune.”

Lidia ebbe un brivido. Voltò lo sguardo e si mise a osservare i bambini. Alice si tuffava, non faceva che apparire e scomparire dal bordo di plastica colorata. Le pareva che le voci dei bambini arrivassero più distanti, attutite. Come se d’un tratto si fosse alzato il silenzio.

“Sono così belli, vero?” disse lui. “Vedono solo quello che vogliono vedere. O quello che vuoi fargli vedere. Se gli sta bene, non fanno domande.”

Lo sguardo di Lidia era fisso su Alice. Rideva, mentre la sua testa si alzava e abbassava. Guardami, pensò lei. Guardami.

“È così anche per me, sai?” Parlava lentamente, si sforzava di fare uscire le parole al meglio che sapeva. “Mi dicono che è una fortuna. È una bella fortuna, quando ti piace quello che vedi.”

Lentamente, le si avvicinò. La studiò per qualche istante, poi distese il braccio verso di lei, aprì la mano e le porse la pallina.

“La puoi tenere, se non lo dici a nessuno,” disse.

▴▴▴

Lidia si svegliò di colpo. Dalle finestre filtrava la luce dei lampioni: doveva essere ancora notte fonda. Restò per un po’ con gli occhi aperti. La stanza era calda, ma era sicura che non fosse stato quello a svegliarla. Aveva la sensazione di aver udito un rumore: un tuono, forse. Adesso, però, non riusciva a sentire altro che il respiro di Alberto. Si alzò e andò alla finestra. Il cielo era terso, una distesa di stelle; non c’era traccia di nuvole. Rimase davanti alla finestra, a sbirciare fra le persiane. Il cortile vuoto, di notte, le dava una sensazione di calma. Ripensò a quel pomeriggio, al giardino di Anna e alla piscina, azzurra e gialla, e si domandò come sarebbe apparsa di notte, illuminata dalla luce dei lampioni, con l’acqua scura e immobile.

Non le capitava spesso di alzarsi durante la notte. Quando succedeva, era per il bisogno di andare in bagno o per una sete improvvisa; barcollava per casa con gli occhi aperti quel tanto che bastava per non inciampare, come una sonnambula, e quando tornava a letto si riaddormentava immediatamente. Quella notte, invece, si sentiva sveglia e piena di forze. Se non fosse stato per gli altri che ancora dormivano, per la paura di disturbarli facendo troppo rumore, la sua giornata avrebbe potuto iniziare in quel momento.

Per la prima volta, si rese conto di quanto poco conoscesse quella casa. Non l’aveva mai osservata al buio, e ancora non riusciva bene a riconoscere ogni cosa. Era una sensazione strana ma divertente, che la fece sorridere. Chiuse la porta della camera sua e di Alberto e accostò quella delle bambine, poi attraversò il corridoio lentamente, sfiorando il muro con una mano, e andò in soggiorno. La luce dall’esterno lì era più forte, e riusciva a riconoscere i mobili nuovi, che odoravano di legno e di smalto. In un cassetto della libreria, dentro la scatola del cucito, aveva nascosto la pallina da ping-pong.

“Che cos’è quella?” aveva chiesto Alberto, mentre rientravano a casa.

Lidia gli aveva raccontato di quello che Giorgio le aveva detto, e di come gliel’aveva messa fra le mani. Poi, però, si era pentita di non averlo tenuto per sé.

“Prendiamo una piscina anche noi,” aveva detto Alberto. “Le bambine si sono divertite.”

Lei aveva sorriso e lo aveva abbracciato. Poi aveva raggiunto Alice, che camminava dietro di loro e continuava a voltarsi verso il giardino di Anna, le labbra imbronciate e la fronte corrugata. L’aveva guardata, poco prima che Giorgio le desse la pallina. L’aveva chiesto con il pensiero e lei si era girata e le aveva sorriso.

Si sedette al tavolo. Le sembrava di poter controllare tutto, da lì. Sentiva che, se solo si fosse concentrata, avrebbe potuto far scorrere il tempo in avanti, velocemente. In un attimo sarebbe sorto il sole, la sveglia in camera avrebbe suonato e Alberto si sarebbe alzato. Avrebbero fatto colazione insieme, oppure l’avrebbe fatta solo lui, e lei gli sarebbe rimasta seduta di fronte, perché magari non avrebbe avuto nemmeno fame. Poi si sarebbero svegliate le bambine, sarebbe stato il loro turno di fare colazione. Avrebbe messo loro i costumi e sarebbero andate in piscina. Sarebbe rimasta a lungo a bordo vasca, a osservarle mentre giocavano nell’acqua. Avrebbe respirato a pieni polmoni l’odore del cloro—ne sono immune, ne sono immune, si sarebbe ripetuta. Ma era sicura che una parte di lei sarebbe rimasta lì, seduta a quel tavolo, nella semioscurità della notte, con il rumore ovattato del sonno che arrivava dalle stanze accanto.

▴▴▴

A Giorgio accadeva spesso di alzarsi durante la notte. Il più delle volte era per colpa dei suoi sogni. Alcuni erano davvero strani, e gli facevano paura. Quella notte, quando si era svegliato di colpo, non era riuscito a capire dove fosse. Non gli capitava spesso di dormire in un letto che non fosse il suo; non gli capitava da anni, forse, e quella sensazione l’aveva turbato più del sogno stesso. Poi, lentamente, i suoi occhi si erano abituati al buio, e aveva cominciato a ricordare. Aveva deciso di fare un giro per la casa, di uscire in giardino, magari, perché sapeva che il cuore non si sarebbe calmato così facilmente se fosse rimasto in quella stanza, con tutto quel buio e quel silenzio. Il salotto era illuminato dalla luce dei lampioni della strada, e questo lo aveva fatto sentire al sicuro. Aveva aperto la finestra ed era uscito in giardino.

Pensò che la piscina fosse strana, di notte. Che facesse quasi paura. Vista così, l’acqua sembrava petrolio. Era nera, e opaca, e densa. Pensò che forse era per quel motivo che la piccola Alice non si muoveva. Che restava lì, sul pelo dell’acqua, senza nuotare. Perché forse non poteva. Era rimasta invischiata, come le mosche nel miele.

Si avvicinò al cerchio di plastica colorata, e provò a infilare un dito nell’acqua. Era calda, e fu una sensazione piacevole. Immerse tutta la mano e la agitò avanti e indietro, dentro e fuori, finché non ebbe la certezza di poterla muovere come voleva. Gli spruzzi colpirono la piccola Alice, ma lei sembrò non accorgersene. Il viso era sott’acqua, come a cercare qualcosa caduto sul fondo, e i capelli bagnati rimanevano incollati alla testa. Solo le punte fluttuavano come piccoli serpenti. Indossava una camicia da notte rosa, che si muoveva assieme ai capelli. Giorgio allungò la mano, le prese un braccio e la tirò verso di sé. La piscina si riempì di piccole onde, e la gonna di Alice si gonfiò. Quando la bambina raggiunse il bordo e il suo corpo si fermò, Giorgio provò a dire qualcosa. Ne uscì un suono simile a un rantolo, e ne ebbe paura. Di colpo si rese conto del silenzio che faceva là fuori; non si sentiva più nemmeno il canto delle cicale, o il rumore delle auto dalla strada. Doveva essere molto tardi; tra poco sarebbe tornato il giorno. Giorgio alzò la testa e guardò il palazzo di fronte. Pensò alle persone che dormivano, dietro le serrande chiuse, e provò a immaginare come sarebbe stato osservare la piscina dall’alto, da una finestra dell’ultimo piano. Il cerchio azzurro dell’acqua, illuminato dalla luce di un lampione e, al centro, una piccola figura che ondeggiava, al ritmo del silenzio.

Francesca Manfredi was born in Reggio Emilia in 1988 and lives in Turin, Italy. Her debut short story collection, Un buon posto dove stare, won the Premio Campiello Opera Prima and was shortlisted for the Premio Settembrini, Premio Chiara, Premio Berto and Premio Zocca Giovani. Her short stories appear in several contemporary Italian magazines, collections, and in the Japanese anthology Somewhere, in a safe place. In 2019 she published her first novel, L’impero della polvere (The Empire of Dirt).

Lucy Rand lives in Norwich in the United Kingdom and is a literary translator from Italian, editor, and teacher of English as a foreign language. She translated the international bestseller The Phone Box at the Edge of the World by Laura Imai Messina (Manilla, 2020) while living in Japan. She also has a blog where she reviews Italian books that are not yet translated into English.

FROM Volume 70, Number 1

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